Dopo anni di vuoto normativo, finalmente le birre artigianali “esistono” anche in Italia: la precedente legge, infatti, non distingueva tra birre artigianali e industriali e vietava anche la sola aggiunta della denominazione in etichetta. Alcune aziende hanno provato lo stesso a segnalare la dicitura “birra artigianale” in etichetta, con conseguente multa.

Ora la situazione cambia, aprendo la strada anche a una maggiore presenza di birrifici non solo artigianali, ma anche agricoli!

Ma andiamo con ordine…

schiuma birra

La normativa sulla birra artigianale

Il collegato agricoltura contenuto nel DDL S 1328-B (Disposizioni in materia di semplificazione, razionalizzazione, competitività per l’agroalimentare) è stato definitivamente approvato in Senato mercoledì 6 luglio 2016, andando ad integrare la legge del 1962, che non prevedeva l’esistenza della dicitura birra artigianale in etichetta. Quella legge, infatti, non ammetteva l’uso di aggettivi integrativi alla denominazione commerciale del prodotto: si potevano utilizzare solo le diciture “birra analcolica”, “birra leggera” o “birra light”, “birra speciale” e “birra doppio malto”.

Il nuovo emendamento definisce

“birra artigianale la birra prodotta da piccoli birrifici indipendenti e non sottoposta, durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione e microfiltrazione. Ai fini del presente comma si intende per piccolo birrificio indipendente un birrificio che sia legalmente ed economicamente indipendente da qualsiasi altro birrificio, che utilizzi impianti fisicamente distinti da quelli di qualsiasi altro birrificio, che non operi sotto licenza e la cui produzione annua non superi i 200.000 ettolitri, includendo in questo quantitativo le quantità di prodotto per conto terzi”.

birra-estate

Cambio di rotta: cosa identifica una birra artigianale

Ciò che cambia ora è l’impossibilità per i grandi colossi dell’industria di produrre birra artigianale, anche attraverso l’esclusione di metodologie di produzione come l’aggiunta di anidride carbonica, la pastorizzazione e la micro-filtrazione che alterano il prodotto impoverendolo delle sue proprietà organolettiche e nutrizionali. Non meno importante: finalmente i produttori potranno esibire sulle etichette dei loro prodotti la dicitura “Birra artigianale”, cosa che gioverà sicuramente anche ai consumatori.

Oltre al processo e alla quantità prodotta, quello che identifica le birre artigianali è anche però la scelta delle materie prime: la nuova legge non adotta criteri specifici in materia, ma accoglie la sollecitazione dell’On. Chiara Gagnarli a incentivare le produzioni italiane di colture come il luppolo. Un passaggio che riporta alla proposta di Collesi, dove si dichiarava prematuro attribuire la definizione di birra artigianale alla provenienza italiana di tutte le materie prime, dal momento che la produzione di luppolo su suolo italiano è ancora troppo bassa per soddisfare la richiesta di tutti i birrifici dello stivale. Tesi avvalorata dagli studi eseguiti dal dipartimento di Scienze e tecnologie alimentari dell’Università degli Studi di Parma e dall’Italian hops company, progetto di ricerca dell’ateneo parmense per la coltivazione bio del luppolo autoctono.

luppolo

La nuova legge dunque attribuisce al Ministero delle Politiche Agricole il compito di favorire, compatibilmente con la normativa europea, il miglioramento delle condizioni di produzione, trasformazione e commercializzazione nel settore del luppolo e dei suoi derivati.

Non solo artigianali: la birra “agicola”

Da quest’ultimo punto di vista, il Decreto Ministeriale n. 212 di settembre 2010 stabilisce che la birra è considerata un prodotto agricolo a tutti gli effetti perché la sua produzione è strettamente collegata al mondo dell’agricoltura. Lo stesso decreto prevedeva per quei birrifici agricoli che producevano in proprio il 51% dell’orzo usato poi nella produzione di birra.

orzo

La birra agricola, così come definita dal decreto 212/2010, deve avere determinate caratteristiche, tra cui quella di essere prodotta dallo stesso agricoltore che produce l’orzo. Il problema però è maltare quest’orzo: pochi produttori possono permettersi di costruire una malteria per cui, per ovviare al problema derivante dal fare maltare il proprio orzo a terzi (con conseguente contaminazione con orzo di altri produttori), molti hanno iniziato a costituire gruppi o consorzi. In questo modo tutto l’orzo che producono all’interno delle loro aziende finisce nella malteria del consorzio e subisce il processo di maltazione, per poi essere restituito al proprietario. La birra agricola così ottenuta è venduta con il marchio del consorzio stesso, che garantisce la sua qualità e provenienza.

COBI

Il più importante di questi consorzi è attualmente il Cobi, Consorzio Italiano di Produttori dell’Orzo e della Birra. Nato nella Marche, questo consorzio si è presto diffuso in tutta Italia, raccogliendo adesioni da circa 80 birrifici agricoli, per il momento. L’adesione al consorzio permette ai produttori di poter esibire in etichetta la dicitura “Birragricola” con un’unica clausola: non rispettare il limite del 51% di orzo prodotto, ma di spingersi al 70%, così da rendere ancora più unico il prodotto.

Importante attività che sta svolgendo il COBI è quella di proporre il supporto tecnico necessario ai produttori che vogliono sperimentare anche la coltivazione del luppolo, spingendo quindi l’acceleratore per la realizzazione di una realtà birraria completamente italiana.

TRATTO DA magazine.lorenzovinci.it